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sabato 29 settembre 2012

Il carico fiscale uccide le imprese la Cna di Vittoria lo prova. Ma i nostri politici queste cose le sanno?



A quanto ammonta il carico fiscale nei confronti di un’impresa artigiana locale? Una domanda che molti dovrebbero porsi per capire in quale contesto e con quale spirito operano le nostre imprese. Ed è la stessa domanda che si è fatta il presidente di Cna Vittoria, Giuseppe Santocono, il quale ha effettuato un piccolo esperimento. Con l’obiettivo di uscire fuori di metafora. “Abbiamo analizzato – spiega Santocono – i dati di una società con 2 dipendenti, che esercita l'attività in un locale di sua proprietà. Abbiamo preso come periodo di riferimento l’anno solare (quindi da gennaio a dicembre), facendo il raffronto tra acconti e saldi. Il reddito complessivo dell’attività è di 58.000 euro. Sommando e shakerando tra Irap, Irpef, addizionale Irpef regionale e comunale, contributi previdenziali dei soci (Inps e Inail) a cui vanno sommati quelli dei dipendenti, e ancora Imu/Ici, Tarsu, canone idrico, diritti camerali, alla nostra attività vengono aspirati da Stato, Regione e Comune circa 47.000 euro. Visto che la matematica non è un’opinione rimangono 11.000 euro. Assurdo ma vero. Un carico fiscale che supera il 75%”. Santocono si chiede: “Di fronte a questa evidenza, come si può parlare di rilancio, rinascita, sviluppo, occupazione? E' da tempo che sentiamo dire che la microimpresa è la spina dorsale dell’economia locale, che il settore manifatturiero è una delle risorse su cui contare per battere la crisi. Belle parole, ottimi slogan. Nella realtà queste imprese, tra un equilibrismo e l’altro, cercano di sopravvivere nell’indifferenza più assoluta di una classe politica che pensa esclusivamente a soddisfare le proprie esigenze. Al netto di una voluta esagerazione si può affermare che il carico fiscale è cresciuto insieme con le indennità di una classe politica (locale, regionale e nazionale) forgiata per favorire la decadenza economica del territorio. Dobbiamo essere noi a sollecitarla sempre e per qualsiasi cosa: Serit, infrastrutture, moratorie, qualità delle zone artigianali. Non hanno tempo per pensare a queste cose? Pensano a cose più importanti? Quali? Il nostro territorio ha bisogno di politici capaci (non solo facce nuove) ed efficienti in grado di spiegare, in modo preciso, cosa intendono fare, con quali fondi e in grado di prevedere le conseguenze visti i tanti vincoli che l’attuale realtà impone. Prima che il nostro tessuto imprenditoriale collassi è fondamentale che si recuperi il senso del fare politica mettendo in campo idee su come capovolgere la tendenza attuale”.

giovedì 27 settembre 2012

Sud. "A rischio di desertificazione industriale. Nel 2012 Pil a -3,5%. Disoccupazione al 25%"


Nel Mezzogiorno quest'anno i consumi caleranno del 3,8% e gli investimenti del 13,5%. Un quarto della popolazione è disoccupata e lavora meno di una giovane donna su quattro. E' quanto emerge dal Rapporto Svimez 2012. "Destano grande preoccupazione i dati relativi all'andamento dell'occupazione, che riguardano in particolare il Mezzogiorno e le generazioni più giovani", ha scritto il presidente della Repubblica, in un messaggio per la presentazione del Rapporto, sottolineando l'urgenza di agire per una ripresa "stabile" della crescita.
Nel 2012 il Pil del Mezzogiorno sarà in calo del 3,5%, i consumi del 3,8% e gli investimenti del -13,5%. E' quanto emerge dal Rapporto Svimez 2012. Il Pil nazionale, invece, ripiegherà del 2,5% grazie al risultato del Centro-Nord (-2,2%). La recessione continuerà al Sud nel 2013 (-0,2%) mentre l'Italia crescerà dello 0,1% e il Centro-Nord dello 0,3%. Il divario è aggravato, per Svimez, dalle manovre del 2010-2011 che pesano per 1,1 punti sul Pil nazionale, per 2,1 punti al Sud e solo 0,8 al Centro-Nord.
Un Mezzogiorno a rischio desertificazione industriale e segregazione occupazionale, dove i consumi non crescono da quattro anni, la disoccupazione reale supera il 25% e lavora meno di una giovane donna su quattro. . Dal 2007 al 2011, l'industria al Sud ha perso 147 mila unità (-15,5%), il triplo del resto del Paese (-5,5%), e ha accelerato la fuga verso Nord degli abitanti. Nel 2011 i pendolari di lungo raggio sono stati quasi 140 mila (+4,3%), dei quali 39 mila sono laureati.
"Nella presente difficile situazione economica destano grande preoccupazione i dati relativi all'andamento dell'occupazione in tutte le aree del paese, che riguardano in particolare il Mezzogiorno e le generazioni più giovani", ha scritto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato per la presentazione del Rapporto, sottolineando l'urgenza di agire per una ripresa "stabile" della crescita.
Oltre un milione e 350 mila persone sono emigrate dal Mezzogiorno dal 2000 al 2010. Nello stesso decennio, il Pil procapite meridionale è passato dal 56,1% di quello del settentrione al 57,7%. "Continuando così ci vorrebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio che separa il Sud dal Nord", osserva Svimez nel rapporto. Per cambiare passo, l'associazione propone un nuovo paradigma per il Sud "capace di integrare sviluppo, qualità ambientale, riqualificazione urbana e valorizzazione del patrimonio culturale".

sabato 22 settembre 2012

Negli ultimi dieci anni le spese delle Regioni sono cresciute di 89 miliardi




Da www.cgiamestre.com

Negli ultimi dieci anni le Regioni italiane hanno speso 89 miliardi di euro in più. Di questi, quasi i 2/3 sono stati aspirati dalla sanità e dai trasporti. In Sicilia le prime tre voci di spesa sono: sanità, amministrazione generale, e sviluppo economico. Infatti nella nostra regione la sanità funziona benissimo, l'amministrazione generale va a gonfie vele e l'economia è floridissima.

Per chi ha voglia di approfondire l'argomento può scaricare le tabelle nel seguente indirizzo



venerdì 21 settembre 2012

Crisi. Diminuiscono le ore passate al lavoro. Aumenta la cassa integrazione




Nel secondo trimestre nelle imprese dell'industria e dei servizi le ore lavorate per dipendente diminuiscono del 2,6% su base annua, al netto degli effetti di calendario. Lo rileva l'Istat, aggiungendo che, sempre tra aprile e giugno, l'incidenza delle ore di cassa integrazione guadagni utilizzate é pari a 37,9 ore ogni mille ore lavorate, con un aumento tendenziale di 10,3 ore ogni mille.
Diminuisce il tempo passato al lavoro: nel secondo trimestre nelle imprese dell'industria e dei servizi le ore lavorate per dipendente diminuiscono del 2,6% su base annua, al netto degli effetti di calendario. Lo rileva l'Istat, aggiungendo che, sempre tra aprile e giugno, l'incidenza delle ore di cassa integrazione guadagni utilizzate é pari a 37,9 ore ogni mille ore lavorate, con un aumento tendenziale di 10,3 ore ogni mille.
Considerando sempre le imprese con almeno dieci dipendenti, nell'industria le ore mostrano una flessione tendenziale del 3,2%, con riduzioni del 3,4% nell'industria in senso stretto e dell'1,9% nel settore delle costruzioni. Mentre nei servizi le ore diminuiscono dell'1,8%.
Le riduzione più marcate interessano i settori del commercio, del trasporto e magazzinaggio e del noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese (in tutti e tre i comparti -2,5%).
L'unico settore in cui si osserva un aumento delle ore é quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche (+1,4%).
Quanto alla cassa integrazione, le aziende dell'industria hanno utilizzato 67,8 ore di cig ogni mille ore lavorate, con un incremento di 21,5 ore ogni mille su base annua. Invece le imprese dei servizi hanno utilizzato 11,9 ore di cig per mille ore lavorate, con un aumento tendenziale di 1,5 ore ogni mille.
L'Istat rileva anche l'incidenza delle ore di straordinario, che nel secondo trimestre è pari al 3,6% delle ore lavorate, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Articolo estratto da www.cna.it

giovedì 20 settembre 2012

LE NOSTRE IMPRESE PAGANO I TASSI PIU’ ALTI D’EUROPA

E’ l’ennesimo record negativo in capo al nostro Paese: i tassi di interesse applicati alle imprese italiane sono i più alti tra le principali economie dell’area euro. Nello scorso mese di luglio (ultimo dato disponibile), il costo del denaro in Italia, sul totale delle consistenze in essere, ha raggiunto un tasso medio del 3,71%: nessun altro Paese tra i nostri principali concorrenti economici ha registrato una percentuale così alta. In Spagna, ad esempio, il tasso  medio ha raggiunto il  3,67%, in Germania il 3,51% e in Francia il 3,20%. La media  dei Paesi dell’area dell’euro si è attestata al 3,53%. L’allarme è lanciato dalla CGIA di Mestre che ancora una volta è ritornata sul delicatissimo tema del costo del denaro e del sempre più difficile rapporto tra banche ed imprese.
Gli effetti economici di questa situazione sono presto quantificabili. Se alle nostre imprese fosse applicato lo stesso tasso medio che “grava” sulle aziende tedesche (3,51%), il risparmio per il nostro sistema imprenditoriale sarebbe pari a 1,75 miliardi di euro.  Se, invece, fosse pari a quello applicato alle aziende francesi (3,20%), le nostre imprese risparmierebbero addirittura 4,48 miliardi di euro.
Ma le brutte notizie, purtroppo, non finiscono qui.  Nell’ultimo anno, complice anche il vertiginoso aumento dello spread che in Italia è salito di ben 147 punti base rispetto ai titoli di stato tedeschi, il tasso di interesse applicato alle Pmi sui prestiti con durata compresa tra 1 e 5 anni  ha registrato l’aumento più significativo tra le principali economie dell’area euro: +1,10 punti percentuali, arrivando a toccare il 6,24%. Tra i grandi dell’area dell’euro solo le Pmi spagnole presentano un costo del denaro più elevato del nostro (+6,50%), anche se nell’ultimo anno la crescita avvenuta in Spagna è stata, rispetto alla nostra, più contenuta (+0,62%).
Anche per le grandi imprese italiane le cose non sono andate meglio: il tasso di interesse sui prestiti ha raggiunto il 3,40%, registrando, tra il luglio 2011 e lo stesso mese di quest’anno,  un aumento record dello 0,74%.
“Siamo molto preoccupati – commenta il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi – soprattutto per le piccole e piccolissime imprese che in questi ultimi 12 mesi hanno subito una forte contrazione dell’erogazione del credito, pari all’ 1,7%, mentre quello concesso presenta tassi nettamente superiori a quelli applicati ai nostri principali concorrenti. Con queste condizioni tener testa alla concorrenza nei mercati internazionali è sempre più difficile”.
Ma le preoccupazioni dell’elevato costo del denaro rischiano di avere anche una importante valenza occupazionale.
“Se non aiutiamo le piccole imprese – conclude Bortolussi – non aiutiamo nemmeno chi è alla ricerca di un posto di lavoro. Ricordo che secondo la Commissione Europea sono le Pmi a creare più occupazione. Tra il 2002 ed il 2010, l’85% dei nuovi posti di lavoro è stato creato dalle piccole e medie imprese europee e, nello specifico, se si considerano solo le microimprese hanno creato mediamente ogni anno 631.000 nuovi posti di lavoro, ovvero il 58,1% della nuova occupazione complessiva. Va da sé che in Italia, per antonomasia terra di piccole imprese, la ripresa economica è legata alla loro tenuta.  Se avranno un aiuto ed un sostegno allora il Paese avrà buone possibilità di farcela, altrimenti sarà difficile contenere la disoccupazione e uscire da questa crisi in tempi brevi”.

Estratto da www.cgiamestre.com

martedì 18 settembre 2012

“Le banche che hanno preso soldi pubblici si comportano come prima”

Pagamenti Pubblica Amministrazione -Imprese: Tajani, "Recepire direttiva o sanzione da Ue"


"Non ci possono essere più tappe per il recepimento, altrimenti sarei costretto ad aprire una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia e di qualunque stato membro che non rispetti la decisione comunitaria". Così, a Napoli, il vicepresidente della Commissione Europea Antonio Tajani, in merito alla direttiva dei pagamenti della P.A. verso le imprese.
"Ho chiesto al governo di recepire anticipatamente la direttiva - ha spiegato - ho buone ragioni per aver fiducia nelle parole di Passera che entro entro novembre sarà recepita". "Deve essere recepita nei termini in cui è scritta", ha ribadito Tajani il quale ha anche sottolineato che questo "significa mettere in circolazione milioni di euro e cancellare una vergogna che soprattutto nell'Italia meridionale costringe centinaia di imprese ad essere pagate a oltre 900 giorni". Il che significa "uccidere le imprese".

Anche il Comune di Vittoria dovrà adeguarsi

Dopo le nostre sollecitazioni della CNA il Comune di Vittoria avvia la pulizia nella zona artigianale.



Adesso occorre predisporre il progetto di videosorveglianza




Un primo risultato dopo la denuncia dei giorni scorsi fatta dalla Cna di Vittoria. L’Amministrazione comunale ha dato l’input all’azienda che gestisce il servizio di igiene urbana per provvedere ad una prima sommaria pulizia della zona artigianale. Altri interventi saranno effettuati nei prossimi giorni. “Con l’auspicio – dicono il presidente Giuseppe Santocono e il responsabile organizzativo, Giorgio Stracquadanio – che si tratti di un’azione che assuma i caratteri dell’ordinarietà e non sia un evento straordinario. Quest’area, in cui sono insediate numerose attività produttive, ha bisogno di ritornare a vivere. E per farlo è necessario potere contare su un decoro che possa, finalmente, essere all’altezza della situazione. Era dunque doveroso da parte nostra, così come avevamo fatto qualche giorno fa quando abbiamo denunciato le anomalie in seno alla zona artigianale, mettere in luce l’attività portata avanti dall’Amministrazione comunale nella direzione propugnata dalla nostra organizzazione datoriale”. 
La Cna, però, torna a battere sul tasto della videosorveglianza. “Invitiamo l’assessore Piero Gurrieri, che non ha ancora risposto alle nostre sollecitazioni dei giorni scorsi – dicono ancora i vertici Cna di Vittoria – a prendere in considerazione la possibilità di realizzare anche nelle aree della zona artigianale lo stesso sistema di videosorveglianza che, con decine e decine di telecamere, è stato pensato per monitorare il quartiere di San Giovanni. Anche le attività produttive hanno bisogno di un monitoraggio costante e duraturo. Ecco perché è opportuno, da subito, pensare alla predisposizione di un progetto del genere”.


lunedì 17 settembre 2012

Carburanti. Scendono i consumi (-9,3%). Ma sale il guadagno del fisco (+17%)


Nei primi otto mesi del 2012 i consumi di benzina e gasolio per autotrazione sono calati, eppure gli italiani hanno speso 3,373 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Grazie ad un aumento del prelievo medio del 22,45% sulla benzina e del 33,04% sul gasolio, il fisco ha visto i suoi introiti crescere di 3,625 miliardi di euro. Società petrolifere e distributori, invece, hanno risentito del calo.
Nei primi otto mesi del 2012 i consumi di benzina e gasolio per autotrazione sono scesi del 9,3%, eppure gli italiani hanno speso 3,373 miliardi in più rispetto ai 41,862 miliardi dello stesso periodo dell'anno scorso. E' quanto emerge da una elaborazione del Centro Studi Promotor GL events in cui si precisa che da gennaio ad agosto gli italiani per benzina e gasolio hanno speso globalmente 45,235 miliardi, di cui il fisco ha incassato 24,48 miliardi, con una crescita del 17,4%.
Grazie ad un aumento del prelievo medio del 22,45% sulla benzina e del 33,04% sul gasolio, precisa il Centro Studi Promotor GL events, il fisco ha visto i suoi introiti crescere in otto mesi di 3,625 miliardi di euro. La parte restante dei 45,235 miliardi spesi dagli italiani è andata invece a società petrolifere e distributori che, contrariamente al fisco, hanno risentito del calo dei consumi.
Gli introiti di petrolieri e distributori scendono così dai 21,006 miliardi dei primi otto mesi del 2011 ai 20,755 miliardi dello stesso periodo di quest'anno con un calo di 252 milioni e nonostante incrementi della media ponderata dei prezzi industriali (prezzi alla pompa meno imposte) del 9,50% per la benzina e dell'8,40% per il gasolio.

giovedì 13 settembre 2012

La Cna di Vittoria torna a rivolgersi alla Crias. Che fine ha fatto la moratoria?

Nessuna risposta alle imprese che hanno fatto richiesta


“Che fine ha fatto la moratoria per le operazioni di finanziamento a breve, medio e lungo termine con la Crias prevista dalla legge regionale  n. 26 del 9 maggio scorso?”. E’ l’interrogativo che si pone il presidente di Cna Vittoria, Giuseppe Santocono, assieme al responsabile organizzativo, Giorgio Stracquadanio. “Ci risulta – sostengono entrambi – che alcune imprese di Vittoria abbiano inoltrato specifica richiesta alla stessa Crias ma nessuna di queste ha ricevuto una risposta. Non ci sono fondi? Se si predispongono norme che puntano a fronteggiare la crisi senza copertura finanziaria, la cosa, oltre ad avere il sapore della presa in giro, sarebbe soprattutto immorale vista la grave situazione in cui versano le imprese. Siamo alle solite: si fanno atti che poi non trovano nessuna applicabilità. Come organizzazione avevamo raccolto e pubblicato l’appello del titolare di una impresa artigiana che invitava le istituzioni regionali ad essere più attente e sensibili nei confronti di chi vuole fare impresa. Più volte abbiamo detto (anche di recente) che il territorio è in ebollizione ma nessuno fino ad ora ha sentito l’esigenza di preoccuparsi”.
“Mai come ora – continuano Santocono e Stracquadanio – la nostra area sente il bisogno di rappresentanti politici abili e adeguati che sappiano capire il tessuto delle microimprese e sappiano individuare percorsi normativi capaci di dare risposte chiare ed immediate allo stesso. L’insensibilità della classe politica e dirigente è senza limiti. Sono capaci solo di predicare con parole piene di certezze ma vuote di realtà. Questo cinico disinteresse verrà ripagato con la stessa moneta”.


lunedì 10 settembre 2012

La zona artigianale di Vittoria si è di nuovo trasformata in una discarica.Che fine hanno fatto le azioni di riqualificazione dell’area?


Basta mollare appena un poco l'attenzione e la zona artigianale di Vittoria diventa quello che non dovrebbe mai essere: una discarica”. E’ il senso della denuncia che arriva dalla Cna di Vittoria. Il presidente, Giuseppe Santocono, e il responsabile organizzativo, Giorgio Stracquadanio, puntano il dito sulla presenza di vecchi recipienti di eternit, televisori fuori uso, materiale edile abbandonato dalle ditte che hanno effettuato lavori in zona.
All'inciviltà di chi compie questi gesti – affermano Santocono e Stracquadanio – si aggiunge la ciclica disattenzione dell'Amministrazione: le erbacce che da tempo infestano l'intera area si potrebbero anche estirpare di tanto in tanto. Servono a poco i dibattiti (pre-elettorali?) sulla nuova zona artigianale. Non siamo contro a nuove aree d'insediamento, anzi magari ce ne fossero (ricordiamo che la nostra organizzazione ha più volte sollecitato l'amministrazione sia per la realizzazione della nuova area Pip sia per il terzo polo industriale), però queste zone sono da gestire in un certo modo. Le imprese insediate nell’area attuale hanno concretizzato investimenti consistenti che oltre a valorizzare le stesse servono qualificano il territorio. Questi sacrifici non possono essere mortificati dall’inciviltà di alcuni cittadini e dall’attenzione a singhiozzo dell’amministrazione”.
La Cna aggiunge: “Il 9 luglio del 2011 consegnammo al sindaco una piattaforma di riqualificazione dell'area Pip con proposte a breve e a medio termine tra cui la video sorveglianza della zona. Alcune cose (poche) sono state fatte. Le altre? L'assessore Gurrieri ha dichiarato che presto, al quartiere di San Giovanni, sarà operativo un sistema di videosorveglianza composto da cinquanta telecamere. Cosa buona e giusta. Ma nella zona d'insediamento produttivo, che è isolata, poco illuminata, esposta ad ogni tipo d'azione, al degrado, cosa è stato previsto? Le nostre richieste che fine hanno fatto? Dobbiamo pensare che le imprese insediate non meritano attenzione? Vengono cercate solo per la Tarsu, imposta sulla pubblicità, Imu? Quando si avrà interesse e rispetto per chi crea reddito, lavoro e sviluppo nella legalità?”
Ufficio Stampa Giorgio Liuzzo

sabato 8 settembre 2012

Cresce in un anno il numero delle imprese attive a Vittoria Santocono: “Da questi dati non si creino facili entusiasmi. La città dimostra comunque di non volersi affatto rassegnare”




Sono 6.590 le imprese attive (artigianato, commercio, industria, agricoltura) al 31 agosto 2012 a Vittoria. Contro le 6.196 imprese attive al 31 agosto 2011 (dato Camcom Ragusa). Un saldo positivo di 394 imprese. “Il dato è insufficiente (mancano cifre sui fallimenti e sulle cessazioni) – dicono il presidente di Cna Vittoria, Giuseppe Santocono, e il responsabile organizzativo, Giorgio Stracquadanio – e per questo non deve servire a creare facili entusiasmi. Una cosa però è certa: malgrado la crisi, il territorio vittoriese è incapace a rassegnarsi. Qui fare impresa, inventarsi un lavoro è un progetto di vita. Cos'altro è inventarsi un lavoro in uno scantinato o con pochi attrezzi, fare crescere la propria attività e realizzare un capannone, assumere i primi operai e con loro portare avanti una cogestione dell'attività, se non un progetto di vita? Servirebbe una maggiore attenzione a questa voglia di fare. Constatiamo però che, oltre alle banche, anche l‘Amministrazione pubblica, attore fondamentale, che possiede la responsabilità sociale nello sviluppo dei territorio, ha dimenticato la propria missione”. Santocono e Stracquadanio chiariscono, infatti, che “le banche non sanno più cos’è il credito: quella voce nata come fattore di sviluppo e di copertura, in piena sintonia con l’economia reale. Hanno dimenticato che gli attori veri dello sviluppo sono le imprese, le stesse che producono le risorse necessarie: occupazione, reddito e risparmio. A questo comportamento ingiusto si aggiunge l'atteggiamento immeritato dell’Amministrazione comunale che dovrebbe essere invece molto più attenta”. Basti pensare che il Comune di Vittoria deve più di un milione di euro, da almeno due anni, a dieci imprese locali che hanno effettuato servizi per l'ente. Alcune si sono sentite costrette ad avviare azioni legali contro l'ente. “Da tempo e ciclicamente – dicono ancora il presidente Cna e il responsabile organizzativo – invitiamo l’Amministrazione ad attivarsi. Questi ritardi hanno appesantito le aziende sino al punto che diverse tra queste sono a rischio chiusura. Eppure la Tarsu, l'addizionale Irpef, l'imposta sulla pubblicità (riscossa dall'Inpa), l'addizionale consumo energia elettrica, per citarne soltanto alcune, in questi ultimi anni sono aumentati. L’Amministrazione ha due mani: una che prende, una che dà. Se ne usa una sola (quella che prende), diventa monca. L'istituzione monca produce quel malessere silenzioso fatto di ingiustizia, solitudine, incertezza e precarietà”. La Cna, non potendo permettere che tutto questo continui, sottolinea che “non è più il tempo di essere tattici di fronte alle difficoltà reali del territorio. Noi siamo perché si ricrei un rapporto di fiducia tra imprese e istituzioni ma serve un comportamento diverso. Per questo chiediamo all'Amministrazione comunale un tavolo di confronto urgente per individuare percorsi che conducano alla soluzione dei crediti che vantano le imprese e soprattutto una politica fiscale comunale meno gravosa”.  

giovedì 6 settembre 2012

IL FUTURO E' L'ARTIGIANATO: IL LAVORO NON SI CERCA SI CREA

di Gabriele Catania

L’uovo di Colombo per la crescita italiana è l’artigianato. Oltre a rappresentare una grande risorsa, è anche una scelta di vita appagante e da valorizzare. Non a caso, nel paese innovatore per antonomasia, cioè gli Stati Uniti, la causa dei “makers”, di coloro che si fanno le cose da soli, sta guadagnando sempre più consensi. Lo spiega aLinkiesta Stefano Micelli, docente di Economia all’Università Ca’ Foscari, autore di un saggio dal titolo provocatorio: Futuro Artigiano. Micelli ricorda la frase del rettore di Harvard in un film: «Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno».

Il futuro è artigiano. Lo profetizzava Philip K. Dick nelle sue opere visionarie, dove spesso il protagonista era una sorta di artigiano, abilissimo nel costruire o riparare le cose. Lo scrive oggi Stefano Micelli. Veneziano doc, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, e autore di un libro, Futuro artigiano(Marsilio), che ha riscosso l’interesse di tutto il mondo produttivo italiano. Nonché successo tra il grande pubblico.
Le tesi di Micelli sembrano l’uovo di Colombo: il lavoro artigiano è una delle cifre della cultura e dell’economia italiana; se si tornasse a scommettere su di esso, contaminandolo con i “nuovi saperi” tecnologici e aprendolo alla globalizzazione, l’Italia si ritroverebbe tra le mani un formidabile strumento di crescita e innovazione. Come dimostrano alcune delle più dinamiche imprese italiane (da Geox a Zamperla, da Gucci a Valcucine) il “saper fare” rimane un ingrediente indispensabile per l’intero manifatturiero italiano. Che, alla fine, è uno dei pochi settori vitali della nostra economia.
«Parliamo sempre di trasferimento tecnologico – dice Micelli – ma bisognerebbe parlare di osmosi. Osmosi tecnica e tecnologica. Cioè mescolare le abilità artigianali con le competenze industriali; le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani».
Quella di Micelli potrebbe sembrare una provocazione nostalgica, quasi passatista. In realtà c’è una buona dose di pragmatismo, nella sua riflessione. Non a caso, nel paese innovatore per antonomasia, cioè gli Stati Uniti, la causa dei “makers”, di coloro che si fanno le cose da soli, sta guadagnando sempre più consensi. Per tanti motivi. Ad esempio, per sfuggire alle logiche impersonali della produzione di massa. O perché manutenere è meglio che riciclare; riparare un oggetto che non funziona è spesso un gesto più ecologico che comprarne uno nuovo. Con buona pace dei diktat consumisti.
E poi il lavoro artigianale non restituisce dignità solo alle cose; anche alle persone. Nelle prime pagine del suo libro, Micelli cita la parabola di Matthew Crawford. Laureato in fisica, PhD in filosofia politica, Crawford finisce presto in un noto think tank conservatore. Un lavoro ben retribuito, importante. Ma che non lo appaga. E così, pochi mesi dopo, molla tutto e apre a Richmond (Virginia), un’officina di riparazioni, la Shockoe Moto. Qui aggiusta vecchie motociclette: un lavoro che magari non fa arricchire, ma rende orgogliosi e gratificati.
Riscoprire il “saper fare”. Ben consapevoli però della globalizzazione e dei “nuovi saperi.” In un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di qualità, e dove la disoccupazione giovanile è altissima ma scarseggiano carpentieri, fornai, sarti e scalpellini, non sembra una cattiva idea.
Professore, il titolo del suo libro suona provocatorio. Oggi tutti parlano di economia della conoscenza, e lei tesse le lodi dell’artigianato.
Nel mio libro ho provato a ribaltare una prospettiva, una visione ormai radicata. Noi siamo vittime di un concetto, quello di “economia della conoscenza”, che si fonda su un assunto quasi ideologico: cioè che solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto. Il nostro presupposto, il Canone occidentale contemporaneo, è questo. Pensi solo al testo L’economia delle nazioni di Robert Reich, e alla sua influenza sulla mia generazione.
Lei lo cita, nel suo libro. «Vent’anni fa Robert Reich […] metteva a fuoco la figura degli analisti simbolici come pivot di una tecnocrazia capace di imporre il proprio ruolo a livello globale. Gli analisti simbolici […] che, di mestiere, “individuano e risolvono i problemi e fanno opera di intermediazione mediante l’elaborazione intellettuale di simboli”».
Robert Reich sosteneva che il futuro sarebbe appartenuto ai cosiddetti analisti simbolici. Gli analisti simbolici sono i consulenti finanziari, i trader, gli intermediari immobiliari e così via. E tutto il mondo gli ha creduto, dando credito a chi si limita a lavorare con PowerPoint dietro lo schermo di un computer. Questa idea oggi è in crisi negli Stati Uniti. Ed è in crisi in tutto il mondo.
Torniamo all’Italia. Cosa c’entra il cosiddetto “quarto capitalismo”, nuova gloria della nostra economia, con gli artigiani?
Oggi, in Italia, si parla tanto di multinazionali tascabili. Ebbene, io ho voluto capire cosa ha fatto e cosa fa la ricchezza di queste medie imprese. Ho preso in considerazione, ad esempio, il settore del lusso. Qui è significativo il passaggio dall’idea di moda, di fashion, a quella di patrimonio culturale, l’heritage. Con il termine heritage le case di moda indicano tutto quello che ha a che fare con il contenuto culturale di un prodotto e con il suo retaggio simbolico. Oggi, se lei entra in un negozio di Gucci può vedere un video con degli artigiani al lavoro su una borsa. È una cosa incredibile: quella borsa vale migliaia di euro, e Gucci mostra come la si realizza. Stiamo parlando di uno dei principali marchi del Made in Italy e di un’azienda con un fatturato di tre miliardi di euro! Deve far riflettere che l’imprenditore francese François-Henri Pinault abbia costruito un’intera strategia su questo.
Sull’artigianalità?
Assolutamente. Pensi a Bottega Veneta. Quando l’ha comprata Pinault, una decina di anni fa, fatturava una trentina milioni di euro. Adesso fattura oltre mezzo miliardo. Tutto scommettendo sull’artigianalità.
Però si tratta di lusso. E il lusso non è il classico settore industriale. In altri campi, ad esempio quello delle macchine utensili, la musica sarà diversa.
Per scrivere il mio libro ho analizzato una serie di casi, cercando di capire come nascano queste macchine, e anche lì ho scoperto delle cose ai più ignote. Si dovrebbe vedere quanta artigianalità c’è ancora nella realizzazione delle macchine utensili. Quanto sia alto il grado di personalizzazione, il livello di “fatto su misura per te”.
Stiamo parlando di pmi o anche di realtà più grandi?
Prendiamo Geox, che è leader nel lifestyle casual. Geox ha decine di artigiani che fanno i modellisti. Una delle forze di Geox è aver internalizzato competenze straordinarie, che una volta erano disseminate nei distretti, e che loro hanno portato in house. Uniscono il meglio delle tecnologie e il meglio dell’artigianato per produrre prototipi che poi vengono industrializzati in giro per il mondo.
Oppure prendiamo un caso dalla provincia di Vicenza, Zamperla. Zamperla è un mix di high tech e artigianalità: in una sala c’è solo tecnologia, computer con i software per calcolare le spinte centrifughe e altro; poi entri nell’altra sala e ci si imbatte in un gigantesco laboratorio di artigiani che fanno pezzi unici. Gente che salda, carpentieri, pittori, decoratori…. Come in Geox, questa combinazione di ricerca scientifica ad alto livello e di manualità, ha dato ottimi risultati. Quando la città di New York ha offerto a Zamperla la possibilità di costruire il luna-park di Coney Island, le ha dato appena 100 giorni di tempo per completare tutto, e loro hanno potuto fare una cosa del genere solo perché dominano un saper fare unico.
Combinare artigiano e alta tecnologia, insomma.
Noi abbiamo seguito acriticamente l’idea che esistesse una conoscenza astratta-scientifica che si traduceva automaticamente in valore economico. È più complicato di come pensavamo. C’è molta intelligenza nel fare, soprattutto quando i prodotti sono pensati per clienti con richieste specifiche o devono evolvere rapidamente nel tempo.
Insomma, rivalutare l’artigianato per poter essere più competitivi sui mercati globali.
Noi, figli dei dogmi di cui le ho appena detto, abbiamo sempre ripetuto il mantra “dobbiamo investire in ricerca”, considerando invece l’artigianato e le professioni manuali come un retaggio del passato. Se si inizia a ragionare diversamente e a vedere nell’artigianato una risorsa, si ottiene di colpo un acceleratore di innovazione di cui non si riesce nemmeno a immaginare la portata. Anziché giocare alla guerra dei mondi, pensi a cosa si potrebbe fare combinando gli artigiani della meccanica, o della moda, o del vetro, e abbinandoli a un ingegnere, a un esperto di comunicazioni.
Combinare il sapere non formalizzato con quello formalizzato e accademico.
Io, che insegno a Ca’ Foscari, ci ho provato con i miei studenti. Ho fatto sette gruppi da cinque ragazzi; ciascun gruppo ha lavorato con un’azienda per sperimentare modi nuovi di valorizzare il saper fare artigiano. Aziende apparentemente low tech, che fanno biscotti, biciclette, o divani. Prima di tutto ho dovuto far capire ai ragazzi che non stavano studiando un caso di folklore, ma che dovevano scoprire una miniera di sapere con il compito di realizzare dei piani di crescita rapida. In questa iniziativa ho coinvolto banche, esperti di relazioni pubbliche, l’ICE.
Mi scusi, ma i suoi studenti come l’hanno presa? 
E i ragazzi ne sono rimasti entusiasti. Molti di loro non avevano neanche mai preso in considerazione un’idea del genere.
Bisogna far riscoprire agli italiani, anche ai più giovani, il lavoro manuale dunque. 
Se si riuscisse a riconciliare gli italiani con il lavoro manuale sarebbe un sollievo: questa concezione manichea, che ha separato il sapere manuale da quello accademico e scientifico, è stato un errore madornale.
Una cosa non esclude l’altra, però: posso puntare sia sulle nuove tecnologie, sia sulla tradizione. 
Certo, può. Però se vediamo quali sono i prodotti che vendiamo nel mondo, notiamo che non esportiamo biotech o nanotech, ma la meccanica, la componentistica, gli abiti di alta sartoria, l’agroalimentare, (un po’ meno) il design. Un giorno, forse, venderemo anche le nanotecnologie, ma stiamo parlando di un orizzonte di lungo termine. La crisi ci impone di rimettere in moto la macchina economica in tempi brevi.
Lei dunque dice: valorizziamo ciò che abbiamo.
Valorizziamolo nel senso economico e culturale del termine. Negli ultimi dieci anni, il numero dei cosiddetti creativi si è centuplicato. Da quando Richard Florida ha scritto della classe dei creativi e delle 3 T (tecnologia, tolleranza e talento), tutti hanno voluto fare i creativi. Mentre il numero degli artigiani è rimasto lo stesso, o è addirittura calato. Quello che deve fare la nostra economia è ragionare proprio sulla saldatura tra il secondario e terziario, tra servizi e industria. Avere tante fabbrichette ormai serve a poco: molto più utile combinare le competenze artigianali di cui ancora disponiamo con quelle degli ingegneri, dei ricercatori, dei medici, degli esperti di comunicazione. Un cocktail così può generare l’inverosimile, a condizione che la nostra cultura riconosca il saper fare come un vero sapere.
Ecco, di nuovo, saltar fuori il titolo del suo libro: futuro artigiano.
C’è un aneddoto rivelatore. Quando Ettore Sottsass, celebre designer italiano, è andato alla Nasa, e gli hanno fatto vedere le componenti delle capsule spaziali, lui, colpito, ha commentato: «Questo posto è pieno di artigiani». L’aneddoto è divertente perché fa capire come l’high tech che servì a mandare l’uomo sulla Luna fosse in realtà tutto “fatto su misura.” Noi crediamo sempre che sia la scienza l’unico modo per risolvere i problemi. Dietro a molta scienza e sperimentazione c’è invece una capacità di fare che magari facciamo difficoltà a formalizzare, ma che rappresenta una risorsa straordinaria per l’innovazione.
I giovani non fanno gli artigiani anche perché spesso sognano di lavorare come dipendenti, pubblici o privati. C’è, secondo lei, una mancanza di cultura del rischio tra i giovani?
È paradossale, ma tutta la discussione sulla meritocrazia negli ultimi anni non ha aiutato la cultura del rischio. È paradossale perché oggi molti dei nostri migliori studenti, proprio in virtù del fatto che hanno ottimi curricula, si aspettano che qualcuno li assuma. Molti di loro si sono semplicemente adeguati a un percorso deciso da altri; lo studente rischia poco di suo. Oggi viviamo in una società che invece esige che l’imprenditore vada controcorrente, facendo cose diverse, scommettendo su quello che altri non fanno. Ecco perché trovo tutto quanto paradossale: da un lato coltiviamo una cultura della meritocrazia, e dall’altro ci aspettiamo che basti un buon curriculum scolastico per farcela. Un film come The Social Network ha forse cambiato un po’ la percezione. Colpisce, nel film, la frase del rettore di Harvard: «Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno». 

tratto dal sito  http://www.linkiesta.it/artigiani-italia#ixzz24ftJJ22K

mercoledì 5 settembre 2012

Silvestrini - "Così siamo costretti a licenziare". La Cna al Governo: giù le tasse

In un'intervista su il 'Quotidiano Nazionale', il Segretario Generale della Cna lancia l'allarme: "tra le imprese domina un senso di precarietà". Urgente anche intervenire per stimolare la domanda e risolvere il problema del ritardo dei pagamenti.